Se avete un figlio/a adolescente vi capiterà spesso di non riconoscere più le sue reazioni: improvvisamente vi troverete a far fronte a sbalzi d’umore, porte sbattute in faccia e atteggiamenti aggressivi che sembrano voler dire “tu non sai niente di me!”. Come genitore vi troverete a pensare di non avere più gli strumenti per capire vostro figlio/a, che sbagliate approccio, che non c’è modo di poter entrare in relazione con lui/lei senza suscitare il suo fastidio, imbarazzo o franca aggressività.
Ebbene, purtroppo è tutto normale. Credo che i genitori degli adolescenti apprezzerebbero occasioni di incontro e confronto per verificare che ciò che vivono è un elemento comune che attiene alla fase di vita chiamata “adolescenza” e non ha a che fare con temi come il fallimento personale o l’incapacità o insuccesso come genitori. Credo anche che il genitore dell’adolescente debba esser forte nel tollerare comportamenti apparentemente incomprensibili senza per questo abdicare al proprio ruolo e autorevolezza. Come è possibile fare questo?
Il punto centrale della questione sta nel riuscire a tenere insieme tendenze contrastanti che sono quelle che esplodono in adolescenza e travolgono non solo l’adolescente ma tutto il suo mondo relazionale quindi in primis i genitori ma anche fratelli, insegnanti e amici. L’adolescente è di fronte al compito evolutivo più arduo, quello di diventare adulto, ed è preso nella morsa di dover dimostrare la propria autonomia pur essendo ancora, inevitabilmente, dipendente. E’ come se per poter diventare autonomo dovesse urlare in faccia ai genitori di lasciarlo andare e, allo stesso tempo, sentire che non verrà per questo abbandonato. La possibilità di sperimentare distanze relazionali variabili dall’adolescente è un punto di forza per il genitore: poter a volte osservare senza interferire, assicurando una “presenza distante” che l’adolescente possa sentire come porto sicuro in cui rifugiarsi se ne dovesse avere bisogno.
In realtà c’è già stato un momento in cui il genitore ha dovuto comportarsi così: era quando lui/lei aveva 2-3 anni, fase cosiddetta di prima separazione-individuazione: il nostro cucciolo/a ha imparato a camminare, ha cominciato a parlare ed è forte la spinta all’esplorazione e all’auto-affermazione tanto che questa è anche detta “la fase del no”. Anche allora per consentire al piccolo/a di sperimentare l’autonomia il genitore ha dovuto frenare “l’istinto interventista”, quello che lo spingerebbe a evitare ogni caduta, senza però “distogliere lo sguardo”, rimanendo cioè in un atteggiamento di osservazione partecipe di quanto il giovane esploratore/rice va scoprendo, monitorando eventuali effettivi pericoli, e di disponibilità ad accoglierne il ritorno con un caldo abbraccio.
In adolescenza, che è la seconda fase di separazione-individuazione, questa dinamica si ripete amplificata e complessificata da altri aspetti di cambiamento del ragazzo/a come quelli legati alla maturazione sessuale del corpo, al rapporto con i coetanei che diventano molto importanti nella sua vita, alle prime esperienze sessuali che attraggono e spaventano allo stesso tempo. Ma aldilà delle numerose differenze la “posizione genitoriale” richiama quella della prima fase di separazione-individuazione e potremmo per semplicità chiamarla di “porto sicuro”: di fronte all’ambivalenza, all’esplodere delle contraddizioni tra spinte indipendentiste e paure dell’abbandono e del fallimento, l’adolescente ha bisogno di sapere che lo sguardo del genitore c’è e che se lui avrà bisogno troverà ancora e sempre quel caldo abbraccio di un tempo.